UN “NEW DEAL” PER LA CULTURA

 
In questi giorni si leggono varie teorie su come far ripartire la cultura dopo
 il lockdown.
Suggestiva l’idea lanciata da Battista sul Corriere della Sera di costituire un “Fondo d’investimento” della cultura, una sorta di “Culturabond”, che al momento non ha trovato un solo economista favorevole ed in effetti se lo Stato italiano dovesse decidere di creare un Fondo di Investimento e vendere bond “di settore”, la vendita di questi titoli sarebbe possibile, realisticamente, solo a condizioni estremamente sfavorevoli. Viene da chiedersi, seguendo le logiche e le regole della Borsa, chi si sentirebbe di acquistare queste azioni senza la garanzia di un guadagno minimo o al limite senza perdere l’investimento, a meno che lo Stato non decidesse di accettare le regole del mercato e quindi procedesse, ad esempio, ad ulteriori riduzioni dei costi del personale, la messa in vendita di particolari beni pubblici ed altro ancora.
Far ripartire la cultura non sarà facile e non si può pensare di far affidamento sui mercati finanziari e quindi non rimane che guardare al passato e prendere ciò che
di positivo è avvenuto.
In particolare, si può attingere dalla crisi derivata dal crollo della Borsa di Wall  Steet del 1929 e al Piano di F. Delano Roosevelt degli anni Trenta, noto come
il “New Deal” e dunque dal Federal Art Project, messo in atto dal 1935 al 1943 con il duplice scopo di aiutare gli artisti durante gli anni della depressione economica e di sviluppare il potenziale artistico del paese nei vari campi, quali ad esempio quello dell’arte pittorica, del teatro, della musica, della scrittura…

Happy Days Are Here Again (giorni felici sono di nuovo qui) è del 1929, musica

 di Ager Milton sul testo di Jack Yellen e questa era la parola d’ordine con la quale gli USA  affrontarono la battaglia economica più difficile.

Ora è tutto il mondo che deve combattere e vincere una battaglia difficile verso un nemico invisibile e pericoloso.

L’Italia oltre ad aver adottato il confinamento (lockdown), ha previsto una misura estrema e cioè il blocco delle attività commerciali e delle produzioni non essenziali.

La cultura è bloccata, musei,  teatri,  cinema chiusi.

Università, Scuole, asili, tutti chiusi, ma con la possibilità di svolgere attività online, che ovviamente non possono e non sono la stessa cosa delle normali lezioni.

Un domani e speriamo che non sia troppo lontano, le Scuole riapriranno e tutto ripartirà, i Musei apriranno, ma quante altre attività potranno ripartire?

Non tutte, purtroppo. Quanti commercianti, artigiani, industriali, professionisti saranno in grado di raccogliere “i cocci” e riavviare l’attività?

Speriamo molti, ma certamente tra coloro i quali si potranno contare il maggior

numero di “caduti”, possiamo cominciare a declinare l’elenco di un insieme di professionisti strettamente legati al settore culturale, perché la sospensione temporanea può tramutarsi in una disabitudine strutturale a fruire di prodotti e servizi culturali.

E non credo di esagerare se affermo che si debba sostenere la domanda

di cultura, perché è in gioco la qualità della vita degli italiani.

Poter disporre dell’ampia gamma culturale, fruita fino a pochi giorni fa,

significa contribuire alla crescita civile e morale del nostro Paese.

Inoltre, sotto il profilo economico, Federculture afferma che:

“ I dati parlano molto chiaramente: il sistema produttivo culturale è responsabile del 6,1 per cento della ricchezza nostrana, pari a 89,7 miliardi di euro. Non solo. La cultura ha anche un effetto moltiplicatore di 1,8. Cioè: per ogni euro prodotto dalle industrie culturali, se ne “attivano” 1,8 in altri settori, pari a 160,1 miliardi. Si arriva così a un totale di 249,8 miliardi di euro generati dall’intera filiera culturale, che rappresentano il 17 per cento del valore aggiunto nazionale. Gli occupati nella cultura sono 1,5 milioni, ossia il 6,1 per cento dei lavoratori italiani.”
Serve però fare presto e questo lo diceva Keynes nel 1929 e lo dice Draghi oggi nel 2020.
Fare presto e fare ciò che è utile e abbandonare la logica del mercato.
Fino a ieri si spingeva la cultura ad autosostenersi, cercando di mettere in atto  tutte quelle pratiche di sostegno economico e finanziario tipiche di quelle società che possono dividere utili e benefici evidenti, ipotizzando che il mercato fosse disponibile ad investire in un settore, come quello culturale, che invece ha trovato davvero pochi benefattori.
Perché non può essere un esempio, riferibile semplicemente ed incondizionatamente  al mondo culturale, quello di alcuni imprenditori che decidono di investire nella ristrutturazione del “Ponte dei Sospiri” a Venezia (Renzo Rosso)o nel restauro del Colosseo a Roma (Diego Della Valle).
La cultura ha bisogno del sostegno pubblico senza se senza ma, se non si vuole che sia asservita a interessi particolari che poco si conciliano con il livello di civiltà di un Paese.

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